mercoledì 22 aprile 2009

Potremmo dire qualcosa, noi pedologi?

6 Aprile 2009. Ore 3,32 a.m.
Una scossa di magnitudo > 5 scuote la terra d'Abruzzo liberando la sua energia in particolare nei dintorni della città dell'Aquila e nelle campagne circostanti. I media giustamente hanno dato risalto alla distruzione e all'ondata di disperazione derivata dalle vittime e rovine dei centri abitati. Le accuse, i sospetti e le certezze dell'Italia intera su quanto è possibile e doveroso fare preventivamente per mitigare gli effetti di un fenomeno naturale quale un terremoto occupano quotidianamente le pagine dei giornali e dei media. Le categorie più citate e esposte in tutti i sensi sono quelle dei geologi, ingegneri, architetti e geometri oltre naturalmente ai sismologi che costituiscono una "razza" a parte a mezzo fra la geologia e la fisica. Noi pedologi non siamo ovviamente parte in causa diretta. Soprattutto per quello che riguarda lo studio dei terremoti. Forse potremmo esserlo però per quanto riguarda il dopo evento: cosa succede in superificie dopo un sisma? Quale dinamiche possono innescarsi? Lo studio dei suoli,inteso come suolo-pedon e non come viene interpretato dalle altre categorie appena citate, può comunque essere di aiuto? Vi sono settori della pedologia che potrebbero essere in qualche modo interpellati per avere una visione più particolare del fenomeno? Insomma avere una conoscenza approfondita dei primi metri di materiale può dare alcune informazioni utili alla gestione di un territorio interessato da un sisma.
Esprimete le vostre considerazioni; dai geologi agli agronomi e da tutti coloro che in qualche modo operano sul territorio per la difesa del suolo.
Federico Castellani

lunedì 6 aprile 2009

Quando 1 milione di ettari si affitta per 99 anni a costo zero

Paesi asiatici ed europei con disponibilità di capitali ma scarsità di terra coltivabile vedono nell’affitto di ampie porzioni di terreni nel continente africano un’ottima opportunità per risolvere i loro problemi di approvvigionamento. L’ultimo caso, di dimensioni colossali, riguarda la Corea del Sud e il Madagascar. Una filiale della multinazionale Daewoo ha appena concluso con il governo malgascio un accordo per prendere in affitto per 99 anni 1,3 milioni di ettari di terre attualmente non coltivate, occupate da savana dove pascolano le greggi dei pastori locali o da foreste primarie. L’accordo non prevede il versamento di somme di denaro al governo malgascio per l’affitto delle terre, ma Daewoo ne finanzierà la messa in coltura.
Non è chiaro se le terre del Madagascar dovranno fornire cibo per i coreani o mais e olio di palma, da utilizzare per produrre biodiesel, l'oro liquido del terzo millennio.

È la prima volta che viene concluso un accordo di tale portata, ma il Madagascar non è il solo Paese africano dotato di un notevole potenziale agricolo che interessa le multinazionali agroalimentari occidentali e asiatiche.
È anche il caso, tra gli altri, dell’Angola, dove la bozza di accordo con gli investitori stranieri prevede l’affitto di 20 mila ettari di terre; ma è solo il primo passo della strategia degli investitori, che puntano a lungo termine ad affittare fino a 2 milioni di ettari in Africa. La scorsa primavera, è stata la multinazionale americano Chiquita Brands, il primo produttore mondiale di banane, ad annunciare l’intenzione di impiantarsi massicciamente in Africa. Per il gruppo è una mossa strategica con lo scopo di aggirare gli ostacoli posti dall’Unione Europea all’importazione di banane dall’America Latina.

Le aziende private non solo le sole a cercare terre da affittare in Africa, per assicurarsi approvvigionamenti di derrate alimentari che nel futuro potrebbero essere sempre più difficili. Gli stati arabi del Golfo hanno in progetto massicci investimenti nelle terre africane.

Di fronte a questa caccia sfrenata alle terre agricole nei Paesi meno sviluppati del mondo la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha pubblicato di recente un documento che metteva in guardia contro il rischio di un «neocolonialismo» agricolo. Ma l’allarme, per quanto da una sede così autorevole, finora non è stato ascoltato.


Informazioni: tratte da articolo di Jean-Pierre Tuquoi per Le Monde - 20/11/2008 ripreso da La Stampa - 21/11/2008

Immagine: tratta da http://www.wildmadagascar.org - vista aerea di un'area deforestata per scopi agricoli